IN LIMINE VITAE

Edoardo Gaiba era il capo dei fattori al servizio della Società Fondiaria Romagnola, un'azienda di vaste tenute nel Ferrarese. Invalido della Grande guerra, aveva 65 anni.

Estremamente ligio, godeva d'una sconfinata fiducia da parte dei suoi superiori che avevano finito col dargli le chiavi degli uffici e dei magazzini. Non si sa come, ma quel servitore del capitale, quel nemico del popolo era riuscito a passare indenne le infuocate giornate della cosiddetta insurrezione.

Ma il 7 maggio del '45 fu convocato al Comitato di liberazione di Portoverrara. E' solo il caso di dire che nei centri minori di provincia, il comitato di liberazione equivaleva al comando partigiano, che era sempre retto da comunisti.

Qui gli chiesero un contributo per la lotta di liberazione, un'elargizione di 500 mila lire, che il Gaiba recisamente rifiutò, spiegandone le ragioni: primo, la guerra era finita, secondo quel denaro apparteneva alla società fondiaria.

Lo lasciarono andare.

Ma un mese dopo, il 7 giugno, fu prelevato da anonimi partigiani e il 12 successivo ne fu trovato il cadavere, orribilmente straziato, in un podere lungo la strada per Bando.

Aveva gli occhi enucleati, la spina dorsale spezzata e piegata all'indietro, le unghie strappate ed era privo del pene.

Il referto certificò che le sevizie furono inferte "in limine vitae", quand'era ancora in vita.

Uno degli assassini si chiamava Gino Tartari, il boia di Porrotto, responsabile d'un centinaio di omicidi.

Condannato, sulla carta, a trent'anni ne scontò cinque.

Morì nel 1994 a 73 anni.

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